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Cinema e propaganda. Il grande inganno di Palestine 36

Rosa Davanzo

Tempo di Lettura: 3 min
Cinema e propaganda. Il grande inganno di Palestine 36

Il 14 gennaio 2026 uscirà nelle sale Palestine 36, il nuovo film di Annemarie Jacir. Sulla carta dovrebbe essere un’opera storica ambientata nella Palestina del Mandato britannico; nella realtà è un esercizio di riscrittura che si concede ogni libertà pur di piegare il passato a un racconto utile al presente. È un prodotto elegante, ben confezionato, sostenuto da due attori celebrati come Liam Cunningham e Jeremy Irons, che da anni hanno trasformato l’attivismo anti-israeliano in un marchio personale. Ma dietro la patina autoriale, il film è un dispositivo propagandistico sorprendentemente grossolano.

Jacir sceglie come punto di partenza la grande rivolta araba del 1936, presentata come un moto unitario, spontaneo e pacifico contro la “colonizzazione” ebraica. In questa versione, la storia si avvia con la dichiarazione del famoso sciopero generale. Peccato che non sia vero. I fatti cominciarono con l’imboscata contro un autobus e l’assassinio di due ebrei, seguiti dalle ritorsioni dell’Irgon. Tutto questo nel film non esiste. Come non esistono le violenze sistematiche contro la popolazione ebraica, documentate dalle commissioni britanniche dell’epoca. Esiste soltanto un popolo arabo unito e perseguitato, mentre ebraismo e sionismo vengono ridotti al ruolo di minaccia costante. Una narrazione che ignora deliberatamente le lotte interne alle famiglie e ai clan arabi, i conflitti politici, le rivalità tra Husseini e Nashashibi, la paralisi decisionale che avrebbe segnato per decenni la leadership palestinese.

Palestine 36 non si limita a deformare il quadro storico: lo raddrizza a martellate fino a far sparire il diritto degli ebrei a vivere nella loro terra. La presenza ebraica diventa un’occupazione ante litteram; la Shoah non esiste ancora, ma il film si comporta come se non fosse mai esistita nemmeno la lunga storia del popolo ebraico nella regione. Ai britannici viene assegnato lo stereotipo degli oppressori coloniali, agli arabi quello delle vittime nobili e compatte, agli ebrei quello dei provocatori. Un copione scolastico che non ha nulla a che vedere con la complessità, ma molto con un’ideologia che da anni tenta di riscrivere le origini del conflitto.

Il punto non è pretendere che un film diventi un manuale di storia: è chiedere che non diventi una macchina di falsificazione. Il cinema può illuminare, scavare, aprire contraddizioni. Palestine 36, invece, elimina tutto ciò che potrebbe disturbare la tesi centrale: che la storia sia un eterno processo contro il sionismo e che il verdetto sia già scritto. Per farlo, sacrifica i fatti, semplifica, edulcora, cancella.

Che questa operazione trovi spazio nelle sale europee e mediorientali non sorprende. È ormai un’abitudine consolidata: quando si parla di Israele e Palestina, la cultura diventa il primo campo di battaglia. E anche il più comodo. Non richiede verifica, non necessita di archivi, basta una sceneggiatura ben costruita per trasformare un secolo travagliato in un melodramma politico dove la verità è un fastidio da mettere a tacere.

Palestine 36 si inserisce perfettamente in questo filone. È il film che molti vogliono vedere perché conferma ciò che vogliono credere. Ma la storia vera, quella documentata, resta un’altra cosa. E continua a chiedere, ostinatamente, di essere raccontata senza trucchi.


Cinema e propaganda. Il grande inganno di Palestine 36
Cinema e propaganda. Il grande inganno di Palestine 36