L’Integrated Food Security Phase Classification, meglio nota come IPC, è un sistema internazionale che raccoglie agenzie dell’ONU, ong e istituti di ricerca per definire, con criteri standardizzati, a che punto una crisi alimentare diventa emergenza e quando l’emergenza può essere considerata vera e propria carestia. Parametri rigorosi, tabelle e soglie pensate per fornire un metro oggettivo, non per gonfiare titoli di giornale. O almeno così dovrebbe essere.
Tra ieri e oggi, però, l’IPC ha deciso di rivedere «repentinamente» quei parametri. Non un normale aggiornamento frutto di anni di studi, ma un aggiustamento lampo che arriva proprio mentre sulla Striscia di Gaza si concentrano i riflettori internazionali. Guarda caso.
Ora, non stiamo qui certo a negare che nella Striscia ci sia un problema assillante di fame — il che equivarrebbe a negare l’evidenza — ma le ragioni vanno spiegate e dichiarate ad alta voce e fino in fondo: è Hamas a usare i civili come scudi, a sequestrare gli aiuti, a farne merce di scambio.
Il nuovo metro IPC, annunciato come «adeguamento tecnico», finisce per abbassare la soglia della dichiarazione di carestia proprio quando serve a spingere l’ennesima campagna accusatoria contro Israele. Si dirà: suvvia, si tratta di criteri scientifici! Ma la tempistica grida politica. E la politica, qui, è la solita: rinsaldare l’ipocrita retorica del mostro israeliano che affama il popolo palestinese.
Non è la prima volta. Le grandi organizzazioni internazionali, a partire dal Palazzo di Vetro e dalle sue agenzie, hanno un curriculum solido di ostilità strutturale verso lo Stato ebraico. Risoluzioni a raffica, condanne mirate, commissioni d’inchiesta monodirezionali. Sui crimini di Hamas, sulle sue ruberie di carburante e viveri, la macchina ONU si limita a qualche sospirata nota stampa. Ma basta che un dato, un parametro, un grafico possa essere piegato contro Gerusalemme, e scatta la corsa a modifiche, aggiornamenti, rapporti «speciali».
È così che la presunta neutralità tecnica diventa un’arma politica. Lo capisce chiunque osservi la scena con un minimo di memoria: a Gaza entrano camion di aiuti ogni giorno, Israele coordina i corridoi umanitari, ma Hamas controlla la distribuzione e usa la popolazione come merce di ricatto. Il resto del mondo finge di non sapere, preferendo la comoda favola del «blocco» israeliano come unica causa della fame.
In questa cornice, la decisione dell’IPC non è un episodio isolato: è un tassello di un mosaico in cui la scienza viene piegata alla propaganda. Si abbassa la soglia di carestia, si produce il titolo da prima pagina, e il passo successivo è già pronto: convocare riunioni straordinarie, votare risoluzioni, lanciare campagne di pressione. Sulla parte sbagliata, ovviamente.
Chi parla davvero di fame, se non per accusare Israele, dovrebbe avere il coraggio di guardare in faccia la realtà: Hamas è il primo responsabile. Ma nei corridoi del Palazzo di Vetro questo resta un pensiero sconveniente. Meglio cambiare i numeri che cambiare il bersaglio.
Carestia su misura per accusare Israele Carestia su misura per accusare Israele Carestia su misura per accusare Israele