La proposta della ministra dei Trasporti Miri Regev di bruciare la salma di Yahya Sinwar ha riaperto una ferita morale che Israele non ha mai davvero rimarginato. Regev ha evocato il destino di Bin Laden, gettato in mare dagli americani, e ha aggiunto: «Ci sono simboli che non vanno restituiti.» In un Paese dove la morte dei nemici del popolo ebraico non cancella né la memoria né il dolore, la questione del corpo diventa improvvisamente una questione di giustizia. Che cosa fare del cadavere di un uomo che ha orchestrato il 7 ottobre 2023, il più grande massacro di israeliani dalla Shoah?
La proposta, secondo i media, è ancora allo studio. Hamas pretende la restituzione dei corpi di Yahya e Mohammed Sinwar nell’ambito dei negoziati per una tregua, e Israele, per ora, rifiuta categoricamente. La salma di Yahya Sinwar, ucciso a Rafah nell’ottobre 2024, si trova da qualche parte sotto controllo militare. Ed è attorno a quella salma che oggi si gioca un dibattito insieme etico, politico e metafisico: bisogna trattare un terrorista come un nemico o come un essere umano?
Il precedente più citato è quello di Adolf Eichmann. Dopo la sua esecuzione, nel 1962, le sue ceneri furono disperse in mare, fuori dalle acque territoriali israeliane, affinché nessuna tomba potesse diventare un luogo di pellegrinaggio. Una decisione dal messaggio chiaro: certi crimini annullano perfino il diritto a un luogo. Altri esempi più recenti vanno nella stessa direzione. Gli Stati Uniti gettarono in mare il corpo di Bin Laden nell’Oceano Indiano. La Germania nazista aveva cancellato le tracce fisiche dei propri nemici; Israele, invece, sceglie la memoria, ma rifiuta la glorificazione.
Nella società israeliana, il dibattito non riguarda la vendetta. Tocca la frontiera fragile tra umanità e barbarie. C’è chi sostiene che si debba restituire il corpo, proprio per non somigliare al nemico: uno Stato di diritto, dicono, non nega la dignità neppure a chi odia. Altri ricordano che Hamas ha fatto dei cadaveri un’arma di guerra: conserva i resti dei soldati israeliani, li scambia, li mercanteggia. Restituire Sinwar significherebbe offrire una vittoria simbolica a chi ha trasformato la morte in culto.
Anche l’argomento religioso pesa. Nella tradizione ebraica ogni morto merita sepoltura, ma la Halakhah ammette eccezioni: quando seppellire qualcuno significherebbe profanare la memoria delle vittime. Per molti rabbini, Yahya Sinwar appartiene a quella zona d’ombra in cui la pietà si scontra con la giustizia.
Il dilemma rivela, in fondo, la tensione permanente d’Israele tra morale e sopravvivenza. Un Paese nato dalla sofferenza non può ignorare il valore del corpo umano, ma sa anche che cosa diventa una tomba in una guerra d’immagini: un altare. Disperdere i resti di Sinwar non sarebbe dunque un atto di vendetta, ma un modo per negare all’orrore un monumento.
Come Eichmann, Sinwar ha firmato la propria cancellazione. La sua morte chiude un ciclo, ma non riscatta nulla. Israele, rifiutando di restituirne il corpo, non parla solo ai suoi nemici: ricorda a sé stesso che la memoria delle vittime vale più di un rituale funebre. E che certi simboli, sì, non vanno restituiti.
Bruciare o restituire: l’ultimo dibattito morale di Israele
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