C’è un momento, nei video girati durante l’attentato di Hannuka a Bondi Beach, che rompe ogni grammatica della paura. Mentre la folla scappa, mentre il rumore degli spari spinge i corpi verso l’istinto più antico – fuggire, nascondersi, salvarsi – un uomo avanza. Non una volta sola. Più volte. Il suo nome è Gefen Bitton, cittadino israeliano, oggi in coma dopo essere stato colpito ripetutamente dai terroristi.
Era arrivato al mare dopo una lunga camminata, con l’idea semplice e quasi banale di chiudere la giornata assistendo all’accensione della menorah, nella prima sera di una festa che avrebbe dovuto essere comunitaria, familiare, tranquilla. Nulla lasciava presagire che quella celebrazione pubblica si sarebbe trasformata in una strage: quindici morti, decine di feriti, un trauma che ha attraversato l’Australia e colpito nel profondo la comunità ebraica.
Le immagini diffuse dopo l’attacco raccontano però qualcosa che va oltre il conteggio delle vittime. Si vede Bitton avanzare verso i terroristi insieme a un altro civile australiano, Ahmed al Ahmed, inizialmente indicato dai testimoni come “l’uomo con la maglietta rossa”. Quando iniziano gli spari, Bitton non arretra. Viene colpito, cade a terra, si rialza. Avanza di nuovo. Poi viene centrato ancora. Un gesto che non ha nulla di spettacolare ma tutto di tragicamente umano: attirare il fuoco, distrarre, guadagnare secondi perché altri possano scappare.
È per questo che, nei giorni successivi, il suo nome ha iniziato a circolare accompagnato da una parola che di solito arriva tardi, o non arriva affatto: eroe. Un eroe non cercato, non dichiarato, che non indossava una divisa né aveva un ruolo di sicurezza. Un uomo che ha scelto il pericolo, consapevole o meno, nel momento esatto in cui la paura poteva paralizzare tutti.
Ferito gravemente, Gefen Bitton è stato trasportato d’urgenza in ospedale e posto in coma farmacologico. È ricoverato in terapia intensiva, mentre i medici cercano di stabilizzarlo e valutare l’evoluzione delle ferite. Suo padre è partito immediatamente da Israele per raggiungerlo. È riuscito a rintracciarlo grazie alla funzione di localizzazione del telefono del figlio, un dettaglio tecnico che, in questa storia, assume il peso emotivo di una linea sottile tra la perdita e la speranza.
Intanto, a Sydney e in Israele, si moltiplicano le veglie, le preghiere, i messaggi di solidarietà. Molti di coloro che hanno visto il video parlano apertamente di vite salvate grazie a quell’atto di distrazione volontaria. Nessuno può dirlo con certezza, ma è proprio questo il punto: Gefen Bitton non poteva saperlo. Ha agito senza garanzie, senza calcoli, senza protezione.
In un tempo in cui il terrorismo colpisce i luoghi della quotidianità ebraica, trasformando feste religiose e spazi pubblici in bersagli, la sua storia diventa un simbolo scomodo e insieme necessario. Non celebra la forza, ma illumina la nostra possibilità di scegliere. Non l’eroismo retorico, ma il gesto che interrompe per un istante la logica della violenza. E mentre Gefen Bitton resta sospeso tra la vita e la morte, la sua corsa verso i terroristi continua a interrogare tutti noi.
Bondi, Gefen Bitton, l’eroe silenzioso
Bondi, Gefen Bitton, l’eroe silenzioso

