L’eroe di Bondi Beach è per molti palestinesi un traditore maledetto. Il gesto di Ahmed al Ahmed, il quarantatreenne siriano-australiano che a Bondi Beach si è lanciato contro uno dei terroristi armati per disarmarlo e salvare vite umane durante l’attacco alla celebrazione di Hanukkah, è stato salutato in gran parte del mondo come un atto di coraggio puro. Un uomo musulmano che rischia la vita per fermare una strage antiebraica: una storia limpida di umanità che in Australia, negli Stati Uniti, in Europa e in Israele è stata letta come una rara affermazione morale nel mezzo della violenza.
La stessa storia, raccontata su una piattaforma mediatica palestinese, ha prodotto una reazione radicalmente diversa. Secondo un’analisi condotta da Palestinian Media Watch sui commenti pubblicati sotto un articolo di Ramallah News, circa il 75 per cento delle reazioni non solo non ha lodato Ahmed, ma lo ha apertamente maledetto. Traditore, apostata, servo degli ebrei: questo il lessico dominante. In molti casi i commenti arrivano a invocarne la morte, augurandosi che le ferite riportate non guariscano. Un odio non accidentale, ma strutturato, ripetitivo, condiviso.
Il dato è politicamente e culturalmente rilevante perché sposta il fuoco dal terrorismo in sé a ciò che lo circonda e lo alimenta. Qui non si discute dell’attentato, né della legittimità della violenza. Si punisce moralmente chi ha osato interromperla quando le vittime erano ebrei. Il messaggio implicito è brutale nella sua semplicità: salvare vite umane è accettabile solo se quelle vite rientrano nel perimetro ideologico corretto.
Una parte minoritaria dei commenti, circa il 20 per cento, ha invece definito Ahmed un eroe, richiamandosi a principi islamici che pongono la protezione degli innocenti al centro dell’etica religiosa. Ma proprio questa minoranza rende ancora più evidente il problema. Non siamo davanti a un’esplosione incontrollata di rabbia, bensì a una scelta. A un sistema di valori in cui l’identità della vittima conta più dell’atto compiuto.
Nel frattempo, le autorità palestinesi hanno formalmente condannato l’attacco, definendolo terrorismo, evitando però qualsiasi riferimento al fatto che le vittime fossero ebrei riuniti per una festa religiosa. Una condanna asettica, priva di contesto, che sembra parlare più alla diplomazia internazionale che alle proprie piazze digitali.
Il caso Bondi Beach mette così a nudo una frattura che molti preferiscono ignorare. Non tra musulmani ed ebrei, né tra Occidente e mondo arabo, ma tra due idee opposte di moralità. Da una parte, l’idea che salvare una vita sia sempre un bene, indipendentemente da chi quella vita sia. Dall’altra, una visione tribale e ideologica in cui il valore dell’azione dipende dall’identità del salvato.
Ahmed al Ahmed, oggi in ospedale, ha detto di non avere rimpianti. È una frase disarmante per la sua semplicità. Ed è proprio per questo intollerabile per chi vive in un universo simbolico in cui l’odio è diventato criterio morale. La sua storia non è solo quella di un eroe. È lo specchio impietoso di ciò che una parte del discorso pubblico arabo-palestinese è diventata: un luogo in cui il problema non è la violenza, ma chi osa fermarla.
Bondi Beach, l’eroe bollato come traditore
Bondi Beach, l’eroe bollato come traditore

