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Belgio, la vergogna di Gand: quando la musica diventa tribunale ideologico

Daniele Scalise

Tempo di Lettura: 4 min
Belgio, la vergogna di Gand: quando la musica diventa tribunale ideologico

Anversa, 18 settembre. Pioggia intermittente e lampi di sole sulla Schelda, il fiume che taglia la seconda città del Belgio. Su Grote Markt, la piazza rinascimentale del suo secolo d’oro, tra molte bandiere nazionali sventola – miracolo – anche quella di Israele, che il vento maltratta come tutte le altre. In mezzo alla piazza un gruppetto pro-pal posa per qualche fotografo; poco più in là una decina di amici loro urla slogan – per me incomprensibili ma fin troppo chiari – contro Israele ed ebrei. Una città segnata da un’immigrazione imponente prosegue la sua corsa distratta, come gran parte del continente in cui è incastonata. Distrazione che, troppo spesso, si trasforma in qualcosa di ben più ripugnante.

La cancellazione del concerto di Lahav Shani al Festival di Fiandra di Gand, in programma il 18 settembre, è diventata la cartina di tornasole. Shani, direttore d’orchestra e pianista israeliano, è direttore musicale della Israel Philharmonic e direttore principale della Rotterdam Philharmonic; dal 2026 assumerà la Münchner Philharmoniker. La motivazione ufficiale – l’impossibilità di ottenere «informazioni sufficientemente chiare» sulla sua posizione rispetto al presunto «regime genocida di Tel Aviv» – non contesta un fatto: pretende un attestato ideologico. Non si giudica l’artista per ciò che fa sul podio; lo si valuta per ciò che dovrebbe dichiarare.

Dopo giorni di polemiche, il consiglio d’amministrazione del festival ha confermato lo stop. Due suoi membri, Christoph D’Haese e Annemie Charlier, si sono dimessi per protesta; il presidente Jan Briers ha rimesso il mandato, che però non è stato accolto. Nel frattempo l’orchestra e il suo direttore, cacciati da Gand, sono stati invitati a Berlino: il Musikfest ha aperto loro le porte, e il pubblico ha risposto come si conviene quando la musica prevale sulla burocrazia morale.

La reazione del mondo musicale è stata compatta. La Filarmonica e la Città di Monaco hanno difeso il loro direttore; a Parigi il Théâtre des Champs-Élysées ha confermato senza esitazioni il concerto; a Berlino istituzioni come i Berliner Philharmoniker e la Staatsoper hanno ricordato che l’arte è, o dovrebbe restare, uno spazio di dialogo. Nel giro di pochi giorni la petizione lanciata dal clavicembalista Mahan Esfahani ha superato le 17 mila adesioni, con firme di interpreti di primo piano.

La politica, prevedibilmente, non è rimasta a bordo campo. In Belgio la decisione di Gand ha trovato sponde locali, ma il primo ministro Bart De Wever è salito a Essen per stringere la mano a Shani dopo un concerto della Münchner Philharmoniker, ribadendo che razzismo e antisemitismo non hanno cittadinanza. Dalla Germania sono arrivate prese di posizione dure, non solo culturali ma istituzionali. E nelle ultime ore lo stesso Shani ha rotto il silenzio: ha ribadito la propria bussola morale – l’impossibilità di restare indifferenti al dolore dei civili – e insieme il rifiuto di un test di purezza ideologica come condizione d’accesso al palco.

Resta l’obiezione: «in fondo è solo un concerto annullato». No. Le scelte simboliche creano clima, e il clima apre o chiude possibilità concrete. Nessuna decisione del Festival di Gand salverà una vita o riporterà a casa un ostaggio; può però rafforzare e normalizzare l’idea che la cultura sia un tribunale di ortodossia, dove si entra soltanto dopo aver firmato una dichiarazione. È una china pericolosa, dannosa alla libertà artistica e, per paradosso, anche alla causa che si dice di voler servire.

Ritirare l’annullamento non significherebbe schierarsi sul conflitto, ma difendere un principio semplice: uguale dignità per gli artisti, indipendentemente da nazionalità e opinioni. La politica ha i suoi luoghi e le sue responsabilità. La musica anche. Difenderla oggi vale più di un gesto simbolico. Anche domani, e dopodomani.


Belgio, la vergogna di Gand: quando la musica diventa tribunale ideologico
Belgio, la vergogna di Gand: quando la musica diventa tribunale ideologico