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Base americana ai confini di Gaza: la svolta che cambia tutto

Paolo Montesi

Tempo di Lettura: 3 min
Base americana ai confini di Gaza: la svolta che cambia tutto

Gli Stati Uniti stanno pianificando la costruzione di una grande base militare lungo il confine israeliano con Gaza. Non una struttura temporanea, non un avamposto logistico: una base capace di ospitare diverse migliaia di soldati americani e forze internazionali incaricate di garantire il mantenimento del cessate il fuoco tra Israele e Hamas. È la notizia — confermata da fonti israeliane — che segna una delle svolte strategiche più radicali degli ultimi decenni nel conflitto israelo-palestinese.

L’investimento stimato è impressionante: circa 500 milioni di dollari. Secondo le fonti, negli ultimi mesi emissari americani hanno discusso il piano con il governo israeliano e i vertici dell’IDF, valutando siti idonei lungo il confine. Un passaggio che, a detta di un funzionario israeliano coinvolto nelle consultazioni, «è difficile persino sopravvalutare: dal 1967 Israele ha fatto di tutto per limitare l’ingerenza internazionale nei territori. La creazione di una base americana su suolo israeliano racconta quanto Washington voglia entrare nel cuore della partita».

È un cambio di paradigma. Finora la presenza militare statunitense in Israele è sempre stata puntuale, mirata, circoscritta. Due esempi recenti lo confermano: i circa 200 soldati americani schierati dopo l’accordo di cessate il fuoco presso il Central Military Coordination Center di Kiryat Gat, e i sistemi THAAD impiegati durante la guerra con l’Iran per intercettare missili in arrivo. Tutto all’interno della logica dell’emergenza, mai della permanenza.

La nuova base è un’altra storia. Significa radicare forze americane nella gestione quotidiana della sicurezza di Gaza; significa ridefinire il ruolo operativo di Israele sul territorio; significa, in ultima analisi, un’inedita condivisione del potere tra Gerusalemme e Washington su una delle questioni più esplosive del pianeta. Non sorprende che la notizia sia destinata a generare tensioni anche negli Stati Uniti: una parte consistente del Partito Repubblicano ha già espresso contrarietà a qualsiasi espansione della proiezione militare all’estero, soprattutto in piena stagione di tagli e di stanchezza degli elettori verso le “avventure” internazionali.

Ma c’è di più. Secondo fonti israeliane, il CMCC di Kiryat Gat dovrebbe assumere il controllo totale della distribuzione degli aiuti umanitari dentro Gaza, relegando il COGAT — l’ente israeliano che per decenni ha gestito il dossier — a un ruolo marginale. Un ridimensionamento che The Washington Post aveva già anticipato, leggendo il segnale per ciò che è: Israele non sarà più l’arbitro principale delle dinamiche interne alla Striscia.

Michael Milshtein, uno dei più autorevoli analisti israeliani della questione palestinese, lo ha detto senza mezzi termini: «Il CMCC gestirà la maggior parte delle attività a Gaza. Lo status di Israele come attore dominante nel territorio sta cambiando». Una frase che pesa come una dichiarazione d’epoca.

Resta il silenzio americano. L’ambasciata USA ha rimandato le richieste di commento al Dipartimento della Difesa, che a sua volta ha indirizzato tutto al CENTCOM. Nessuna risposta, almeno per ora. Una scelta che lascia intuire un cantiere diplomatico ancora aperto.

In attesa delle conferme ufficiali, una cosa è ormai evidente: non siamo davanti a un semplice aggiustamento tattico, ma a una nuova architettura di sicurezza regionale. Con un effetto collaterale inevitabile: la sovranità operativa di Israele su Gaza, già erosa, si prepara a essere ridisegnata da forze che arrivano da molto lontano. Una storia che riguarda non solo il Medio Oriente e l’America, ma anche un’Europa che dovrà fare i conti — volente o nolente — con nuovi assetti politici e militari in una zona che non può permettersi di ignorare.


Base americana ai confini di Gaza: la svolta che cambia tutto
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