Lo sventolio di bandiere palestinesi su molti edifici pubblici è divenuto ormai una realtà diffusa, a cui abbiamo finito per assuefarci.
Cerchiamo almeno di fare un po’ di chiarezza su questo tipo di iniziative, a partire dal piano normativo: un dato appare certo ed è che la bandiera palestinese non può essere esibita negli edifici pubblici.
Il divieto è previsto dall’art. 8 del d.P.R. 121/2000 (che consente l’esposizione di bandiere straniere solo in occasioni ufficiali e per il tempo strettamente necessario) e dalle regole del Cerimoniale di Stato (che escludono qualunque esibizione permanente di vessilli politici, identitari o ideologici, per preservare la neutralità dei luoghi pubblici).
Per giunta, poiché l’Italia non riconosce lo Stato di Palestina, quella palestinese non è solo una bandiera straniera, ma un simbolo di parte, dal contenuto ideologico e divisivo, che compromette ancor di più la neutralità dell’Istituzione.
Un esposto alla Prefettura potrebbe portare a un ordine di rimozione, come confermano vari precedenti: da quelli passati che hanno riguardato le bandiere arcobaleno, a quelli più recenti sulle bandiere palestinesi (ad esempio, in Emilia Romagna e in Liguria).
Eppure tutto continua come nulla fosse.
Così, la Giunta Regionale Toscana appena insediatasi ha assunto, come primo atto, proprio quello di esporre la bandiera palestinese. Una scelta lontana dalle priorità dei cittadini, che desta peraltro un certo stupore, considerata la nota serietà e competenza amministrativa del Presidente riconfermato.
Che si tratti dell’ingenuo convincimento che ciò possa davvero aiutare i civili palestinesi o, più verosimilmente, di un’esigenza politica interna alla composita maggioranza (si vedano le posizioni apertamente pro-Pal della Vicepresidente), la conclusione non cambia: da oggi, anche sul Palazzo della Regione Toscana sventola una bandiera palestinese.
Ma la dimensione giuridica non è l’unica a porre interrogativi. C’è anche il tema, altrettanto decisivo, dell’opportunità di esporre questi vessilli.
È, anzitutto, inutile negare l’evidenza: la bandiera della Palestina, lungi dal supportare la causa palestinese, la mortifica e la compromette. È divenuta uno strumento della propaganda pro-Pal più radicale, che la esibisce come un simbolo di resistenza, per giustificare tanto le azioni di Hamas e compagnia jihadista quanto gli episodi che mettono a ferro e fuoco le nostre città, sempre con maggiore frequenza.
Inoltre, lo scenario internazionale è cambiato, nonostante in pochi in Italia se ne siano accorti: il 17 novembre il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha approvato la risoluzione che recepisce il Piano di Pace firmato a Sharm.
Da quel giorno, il “Piano di Trump” è diventato il “Piano dell’ONU”, che ha così posto il suo sigillo a conferma della serietà dello stesso.
È facile pensare che ciò sia stato vissuto come un tradimento da chi, fino al giorno prima, aveva usato l’ONU come cassa di risonanza per la propria retorica antisraeliana e per bollare il Piano di Pace come uno strumento coloniale e imperialista (era senza dubbio più semplice screditarlo quando portava il nome del “cattivo” Trump, alleato dell’altro “cattivo” Netanyahu).
E tuttavia non si può davvero ritenere che l’ONU vada bene solo quando nomina special rapporteur o commissioni di dubbia integrità che puntano l’indice contro Israele, mentre diviene complice di una politica coloniale quando approva il Piano di Pace…
Vero è, all’opposto, che il Piano, pur con tutte le sue fragilità – a partire dal necessario disarmo di Hamas – rappresenta uno sforzo concreto per normalizzare i rapporti in Medio Oriente nel solco degli Accordi di Abramo, come dimostra l’ampio sostegno ricevuto non solo dal Consiglio di Sicurezza e da Israele, ma anche dai principali Paesi Arabi e dalla quasi totalità dell’Assemblea Generale.
Quel che ci si attende dalle Istituzioni è, allora, un pieno supporto a un processo di pace così delicato, che eviti iniziative divisive.
Da qui, una proposta alle Amministrazioni più reticenti: se proprio non intendono rimuovere quel vessillo – cosa che andrebbe fatta senza indugio, per rispetto della legge e della neutralità istituzionale – almeno lo affianchino alla bandiera israeliana.
Sarebbe un segnale di apertura al dialogo e contribuirebbe a un clima più disteso, facendo sentire meno soli gli ebrei e tutti coloro che si battono contro il crescente antisemitismo, meschinamente mascherato da antisionismo.
Un gesto semplice, ma con grandi potenzialità per cambiare approccio.
Purché – è ovvio – vi sia da parte di tutti l’onestà intellettuale di comprenderne il valore.
Bandiere palestinesi, tra legge e scelte politiche: ciò che troppi ignorano
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