Ogni giorno ci informiamo, analizziamo. Raccontiamo del conflitto in Medio Oriente, della guerra tra Russia e Ucraina, delle tensioni che attraversano l’Europa. Parliamo di antisemitismo che ritorna, di leggi che dividono, di politica che si consuma in slogan, di religione che si piega alle fazioni.
Scriviamo di tragedie e di possibili soluzioni, come se la parola potesse bastare a fermare il dolore. Eppure, mentre digitiamo sulla tastiera del computer, resta la sensazione che i conti non tornino: che la realtà sia sempre più grande, più amara, più irriducibile delle nostre analisi.
Viviamo in un tempo in cui l’opinione è diventata moneta corrente. Tutti parlano, tutti sanno, tutti si sentono autorizzati a giudicare. Nessuno ha più l’umiltà di dire: “Non ho risposte, mi informerò”. È come se il silenzio fosse diventato un difetto, e la prudenza un vizio.
Si punta il dito contro la modernità, contro la tecnologia, contro l’informazione che corre più veloce della memoria. Si accusa la scuola, le famiglie, i giovani che non avrebbero basi etiche né culturali. Eppure, chi li ha cresciuti? Chi ha costruito il mondo che oggi li giudica?
I Boomer vengono chiamati in causa: non avrebbero saputo educare, ma sono i primi a lamentarsi delle nuove generazioni. È un gioco di responsabilità che si rimbalza come una palla sgonfia: nessuno la vuole tenere, tutti la rilanciano.
E mentre ci si accapiglia sul presente, chi governa le superpotenze mondiali non è certo un ragazzo inesperto. Sono uomini e donne di età avanzata, quelli che dovrebbero incarnare la saggezza, la memoria, i valori. Eppure sono proprio loro a scrivere leggi che dividono, a muovere economie che schiacciano, a generare conflitti che insanguinano.
I conti, allora, non tornano veramente. Perché se davvero l’età porta esperienza, se davvero la maturità porta coscienza, non dovremmo trovarci in un mondo che brucia di odio e di ingiustizia. Qualcuno bluffa. Qualcuno recita. Qualcuno finge di avere le risposte.
Forse la verità è che l’odio e la smania di potere ci sono sempre stati, e probabilmente ci saranno per sempre. Non è un difetto dei tempi, non è una colpa della tecnologia o della scuola: è una condizione umana che si ripete, che si traveste, che si rinnova.
La civiltà, quella vera, non è mai stata un punto d’arrivo, ma una fragile conquista quotidiana. E quando smettiamo di coltivarla, quando ci illudiamo che basti l’età o l’esperienza per renderci migliori, scopriamo che il teatro dell’odio e del potere continua a replicarsi, sempre uguale, sempre nuovo.
Eppure, nonostante tutto, – soprattutto noi di Setteottobre – non ci arrendiamo. Scriviamo, scriviamo e riscriviamo. Perché la speranza è l’ultima a morire, e le parole restano il nostro modo più ostinato di resistere.
Banalmente i conti non tornano, nonostante l’impegno profuso
Banalmente i conti non tornano, nonostante l’impegno profuso

