Il 9 ottobre 1982, alle 11.55, cinque terroristi palestinesi del gruppo di Abu Nidal attaccano il Tempio Maggiore di Roma durante lo Shabbat e la festività di Shemini ‘Atzeret, con decine di famiglie radunate per i bar mitzvah. Lanciano bombe a mano e aprono il fuoco sulla folla che esce: muore un bambino di due anni, Stefano Gaj Taché; decine i feriti, tra cui il fratellino Gadiel e i genitori.
L’attentato avviene in un clima già avvelenato dalla guerra del Libano e dalle polemiche su Sabra e Shatila. In quei mesi, parte della sinistra radicale descrive gli ebrei italiani come “complici” di Israele e in via Garfagnana compare lo striscione “Bruceremo i covi sionisti”. Poco prima, durante un corteo della CGIL, una bara bianca viene deposta davanti alla sinagoga: un gesto che molti ebrei vivono come un messaggio ostile, non come un atto di solidarietà.
Solo anni dopo emergerà che i servizi italiani disponevano di segnali e avvertimenti sul rischio di attentati contro obiettivi ebraici, ma quel sabato al Tempio Maggiore non c’è alcuna protezione dello Stato. L’immagine della bara bianca e quella della bara minuscola di Stefano Gaj Taché rimangono, per la comunità ebraica, due ferite sovrapposte: il disprezzo simbolico e l’odio armato. A distanza di decenni, l’Italia continua a interrogarsi su come sia stato possibile che un bambino italiano sia stato ucciso in pieno centro di Roma solo perché ebreo.
Attentato alla sinagoga di Roma (9 ottobre 1982)

