La Festa di Atreju si è chiusa lasciando l’amaro in bocca. Non per l’organizzazione, non per la macchina perfetta dell’evento, ma per ciò che resta sul tavolo quando si parla di Israele. O meglio: per ciò che viene accuratamente lasciato fuori.
Formalmente Fratelli d’Italia è con Israele. Lo ribadisce, lo rivendica, lo mette agli atti. Ma guai a pronunciare il nome di Benjamin Netanyahu in uno dei dibattiti. È una rimozione sistematica, quasi un riflesso condizionato. Il partito di Giorgia Meloni procede per antinomie, non per posizioni nette: non è “con Bibi” o “contro Bibi”, non è “con Israele” senza riserve. È, piuttosto, contro la sinistra. Contro Elly Schlein. Contro Francesca Albanese. Il resto viene di conseguenza.
Così si gioca di sponda. Si riconosce il diritto di Israele a esistere – formula minima, obbligata – ma si condanna senza mezzi termini «la risposta sproporzionata» dopo il 7 ottobre. Una condanna che arriva puntuale, priva di contesto, scollegata dalla realtà strategica e militare di una guerra scatenata da un pogrom. Israele sì, ma con il freno a mano tirato. Israele sì, purché non disturbi l’equilibrio della piazza.
Giovanni Donzelli e Italo Bocchino sono fieramente con Israele quando la platea lo consente. Molto più diplomatici quando la platea cambia. Anche quando è la loro. Perché l’esperienza di stare in sala durante l’indisturbato monologo di Abu Mazen – scortato sul palco da Giorgia Meloni in persona – è rivelatrice, quasi epidermica: la sensazione è quella di trovarsi in una curva da stadio, non troppo diversa da una Festa de L’Unità.
Gli attivisti di Fratelli d’Italia, unici ammessi alla celebratissima acclamazione pubblica del leader palestinese, riconoscibili per il badge nero, si spellavano le mani. Non in segno di consenso consapevole, ma di consegna. Non di semplice interesse, ma di devozione. Perché è difficile credere che sapessero davvero chi fosse l’uomo sottobraccio della premier.
Abu Mazen non è una figurina neutra della diplomazia internazionale. È stato il braccio destro di Yasser Arafat, il capo di Fatah negli anni in cui l’organizzazione seminava sangue in Europa. Roma lo sa bene. Il doppio attentato all’aeroporto di Fiumicino del 1973 e del 1985, l’attacco alla Sinagoga di Roma, il dirottamento dell’Achille Lauro: episodi che portano la firma di Fatah. Per colpire alle Olimpiadi di Monaco, la stessa organizzazione si nascose dietro la sigla Settembre Nero. Quando Abu Mazen comandava, non faceva politica: faceva guerra.
Eppure, come se tutto questo non esistesse, i parlamentari di Fratelli d’Italia, i ministri del governo Meloni, la premier stessa hanno abbracciato, vezzeggiato, indorato Abu Mazen. Nel frattempo, sguardi torvi – quasi orbacei – erano riservati al cronista con la kippah in testa. Colpevole, quasi, di voler guastare il clima della bella festa. Colpevole di ricordare che la storia non è un optional e che l’ambiguità, quando si parla di antisemitismo e terrorismo, non è mai neutrale.
Atreju finisce così: con Israele evocato, Netanyahu rimosso e una piazza che applaude senza sapere – o senza voler sapere – chi sta davvero applaudendo. Per Setteottobre, questo non è un dettaglio. È un segnale.
Atreju, l’ambiguità che resta. Israele evocato, Netanyahu rimosso
Atreju, l’ambiguità che resta. Israele evocato, Netanyahu rimosso

