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Artisti in cerca di rilevanza: la nuova industria dell’indignazione

Andrea Molle

Tempo di Lettura: 3 min
Artisti in cerca di rilevanza: la nuova industria dell’indignazione

Il dibattito scoppiato attorno al Festival di Venezia, con l’appello di Venice4Palestine per escludere Gal Gadot e Gerard Butler accusati di sostenere l’«esercito genocida» israeliano, e le dichiarazioni di Mark Ruffalo contro Trump e l’Europa per la crisi umanitaria a Gaza, rivela un fenomeno ormai diffuso: attori e celebrità che, più che recitare o dirigere, sembrano impegnati a cavalcare narrazioni ideologiche in cerca di nuova visibilità.

Non è un caso che gran parte di questi interventi arrivi da figure artistiche in disarmo o che hanno perso da tempo la centralità culturale che un tempo le rendeva autorevoli. Mark Ruffalo non è nuovo a proclami dal tono messianico, ma difficilmente si ricordano sue interpretazioni di rilievo negli ultimi anni; allo stesso modo, Butler e perfino Gadot vivono di rendita su franchise già logorati, costretti a riaffacciarsi sulle cronache non per i loro meriti cinematografici, ma per posizionamenti politici che garantiscono attenzione mediatica immediata.

Ma il fenomeno non si limita a Hollywood. L’appello lanciato in Italia è stato firmato da nomi come Marco Bellocchio, Carlo Verdone, Valeria Golino, Margaret Mazzantini e Laura Morante. Tutti artisti che, pur avendo avuto un ruolo importante nel passato, da tempo non rappresentano più un punto di riferimento creativo né al botteghino né nella critica internazionale. Si tratta di figure che, in larga misura, vivono oggi di prestigio ereditato e che sembrano aver trovato nell’attivismo politico il modo più rapido per tornare sotto i riflettori. Anche qui, l’impressione è che la spinta sia meno quella di una genuina urgenza morale e più quella di una necessità di mantenere un ruolo pubblico in un’epoca che li ha sostanzialmente archiviati.

Il problema non è che un artista esprima opinioni politiche — in democrazia è un diritto e in certi casi persino un dovere morale. Il problema è la riduzione sistematica di questioni complesse, come il conflitto israelo-palestinese o la tragedia di Gaza, a slogan morali semplificati, utili più a generare consenso digitale che a proporre soluzioni. Parlare di «genocidio» o di «complicità nella fame» senza contestualizzare storicamente e politicamente la situazione rischia non solo di banalizzare la sofferenza reale, ma di offrire indirettamente sostegno a organizzazioni terroristiche come Hamas, che hanno fatto della strumentalizzazione umanitaria una delle loro armi più efficaci.

L’arte dovrebbe aprire spazi di riflessione critica, non uniformarsi al conformismo ideologico del momento. Oggi, invece, assistiamo a un’inversione: le star cercano nell’attivismo politico una scorciatoia alla propria irrilevanza artistica, e la denuncia diventa il nuovo palcoscenico. Il risultato è un’industria dell’indignazione che produce titoli, like e applausi facili, ma ben poca consapevolezza.

In fondo, la domanda da porsi è semplice: quando l’urgenza umanitaria diventa un pretesto per rimanere sotto i riflettori, a chi giova davvero? Alle vittime del conflitto o alle carriere di chi, senza questa indignazione a orologeria, rischierebbe di scivolare definitivamente nell’oblio?


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