Un video circola sui social: una delegazione di arabi israeliani è a Londra, tra metropolitana e campus, per ribaltare il frame più comodo delle piazze. Non apartheid, dicono, ma convivenza rivendicata in prima persona. A guidarli è Yoseph Haddad, attivista arabo-israeliano ed ex soldato, volto noto delle contro-manifestazioni. Lo si vede parlare ai pendolari, nastro giallo al polso e una giacca con la scritta London 2025 in ebraico, arabo e inglese. Chiede la liberazione degli ostaggi e contesta la versione ripetuta fino alla nausea, quella che riduce Israele a un regime razzista. Il tono è diretto, senza orpelli: siamo arabi israeliani, Hamas è un’organizzazione terroristica, liberate i rapiti.
Non è un’uscita estemporanea. In primavera una delegazione di arabi israeliani — musulmani, cristiani e drusi — è stata ricevuta alla House of Lords. L’incontro, promosso da esponenti trasversali, aveva un obiettivo semplice: smentire con i fatti l’etichetta di apartheid. In Israele siedono giudici arabi, gli ospedali e le università sono misti, nelle forze armate servono anche drusi e musulmani. Tra le voci più forti c’è stata quella di una sopravvissuta al 7 ottobre, che ha chiesto di cambiare il racconto ormai preponderante e mistificato, partendo dalla realtà vissuta e non dagli slogan.
Lo stesso fronte si è visto nelle università, a partire dalla SOAS University of London (School of Oriental and African Studies), epicentro di molte campagne di delegittimazione. Lì un’iniziativa dal titolo Stop the Hate ha messo fianco a fianco studenti, docenti e la delegazione arabo-israeliana, provando a spostare la discussione dai cori alle verifiche elementari: chi parla di apartheid è disposto a misurarsi con i dati della cittadinanza reale? Per una sera la risposta è stata sì. È emerso un contro-racconto visibile, organizzato, non episodico, capace di reggere al confronto pubblico e di rispondere alle domande senza rifugiarsi nei cartelli.
La scelta della metropolitana come palcoscenico non è casuale. È lì che la propaganda, negli ultimi mesi, ha cercato la risonanza più facile: slogan brevi, immagini forti, zero contraddittorio. Haddad capovolge il megafono. Parla in inglese chiaro, individua il punto e lo ripete: gli ostaggi esistono, Hamas li trattiene, la lotta contro il terrorismo non è contro i palestinesi ma contro chi li usa come scudi. Il formato è spartano e proprio per questo efficace. Sta nello stesso spazio, nelle stesse orecchie, delle frasi urlate a senso unico. Ma porta dentro quella scena qualcosa che finora mancava: la testimonianza diretta di cittadini arabi israeliani che negano di essere vittime di segregazione.
L’operazione ha anche un valore interno britannico. Le grandi marce del weekend hanno normalizzato slogan e simboli estremi, mentre nei campus si è aperto un cuneo tra libertà accademica e intimidazione. Portare arabi israeliani a parlare di cittadinanza condivisa è insieme un supporto agli studenti messi nel mirino e un test per il sistema mediatico. È disposto ad ascoltare una voce che non rientra nello schema oppressi/oppresori, ma proviene proprio da chi verrebbe etichettato come oppresso? A Westminster, almeno per un giorno, quella voce è stata ascoltata. In metropolitana, per qualche fermata, ha fermato il rumore.
Non è propaganda al contrario, è politica dei fatti. La delegazione mostra ciò che la semplificazione rimuove: minoranze che non chiedono di essere salvate dal proprio passaporto; una società imperfetta e litigiosa che però non separa autobus, corsie o tribunali per religione. È un messaggio scomodo per attivismi che vivono di immagini binarie. Ma proprio per questo buca lo schermo e costringe a una verifica concreta: se l’apartheid è la categoria, com’è possibile che siano gli arabi israeliani — in carne e ossa — a negarla, e a farlo davanti al Parlamento, nelle aule universitarie e nei vagoni della Tube?
La clip di queste settimane rimette tutto al centro: gli ostaggi da liberare, la responsabilità di Hamas e una convivenza che non entra nei cori ma abita le biografie. È il tipo di presenza che cambia la scena più di mille comunicati. E che lascia una domanda utile anche qui: vogliamo raccontare la realtà com’è, o continuare a inseguire il racconto che ci rassicura?
Arabi israeliani a Londra, «Liberate gli ostaggi, liberateci da Hamas»/span> Arabi israeliani a Londra, «Liberate gli ostaggi, liberateci da Hamas» Arabi israeliani a Londra, «Liberate gli ostaggi, liberateci da Hamas»