Anche oggi, quando tutto fa pensare al peggio, si deve ostinatamente cercare la strada della pace. Per quanto la ragione ci spinga verso il pessimismo, dobbiamo far prevalere l’ottimismo della volontà. La cooperazione economica ha permesso all’Europa di vivere in pace per settant’anni, dopo secoli di guerre sanguinose. Gli Accordi di Abramo — che prendono nome dalla figura condivisa di Abramo, venerata sia nell’Ebraismo sia nell’Islam — rappresentano un simbolo di legame tra popolo ebraico e arabo.
È proprio su questa base che la cooperazione economica, tecnologica, negli investimenti e nella sicurezza può favorire la comprensione reciproca, il rispetto e una cultura di pace tra le società coinvolte. Se non si riparte da qui, da cosa si dovrebbe ripartire? Dalle recriminazioni e dal desiderio di rivalsa? La costruzione di una pace duratura non può limitarsi a un accordo bilaterale tra israeliani e palestinesi. Serve il coinvolgimento dell’intero mondo arabo in questo difficilissimo processo di costruzione della fiducia.
Dopo quanto accaduto, i palestinesi non si fidano degli israeliani e viceversa. Ma senza fiducia nessun accordo può stare in piedi. Serve quindi una traslazione di fiducia, che solo i Paesi arabi possono garantire. Egitto e Giordania possono essere protagonisti della mediazione, ma è indispensabile anche l’impegno dell’Arabia Saudita e delle monarchie del Golfo. È necessario edificare una cornice condivisa di sicurezza, senza la quale non c’è stabilità né pace. In psicologia il transfert è uno strumento che permette di elaborare i conflitti e sviluppare nuove relazioni: qualcosa di simile deve avvenire anche qui.
Per quanto riguarda palestinesi e israeliani, solo nuove leadership, da entrambe le parti, potranno superare odio e vendette e avanzare senza voltarsi indietro, per non diventare — come nella Bibbia — statue di sale.
Il regime iraniano è oggi nel pieno di una crisi profonda. La leadership religiosa, dopo anni di repressione interna e sostegno al terrorismo internazionale, è passata dalla tragedia alla farsa. È ridicola agli occhi dello stesso popolo persiano, che oggi ne ridicolizza le spiegazioni ufficiali per le esplosioni in molti palazzi, attribuite a “fughe di gas” anche in edifici non allacciati alla rete. I social network sono pieni di meme e satire, mentre le operazioni di sabotaggio, molto probabilmente condotte da servizi stranieri come il Mossad, mettono a nudo l’inadeguatezza del regime. È uno Stato teocratico che sembra un animale ferito: ancora pericoloso, ma sempre più isolato e vulnerabile.
Potrebbe crollare più per un colpo di Stato militare che per una rivoluzione democratica, vista la frammentazione delle opposizioni. Diverso il discorso su Hezbollah, che ha radici profonde nella società sciita libanese. I pasdaran iraniani sono riusciti nel capolavoro strategico di far percepire Hezbollah non come uno strumento straniero, ma come espressione autoctona del malcontento sciita. È diventata milizia, partito politico, sistema di welfare, simbolo d’identità e orgoglio religioso. Ha saputo mimetizzarsi tra la popolazione, diventando imprescindibile negli equilibri interni del Libano. Ecco perché non basta decapitarne la leadership: finché continuerà a ricevere il sostegno iraniano, rimarrà una minaccia. Ma se Teheran cade, anche Hezbollah perde forza.
La Siria è un altro fronte instabile. La fuga precipitosa di Assad e il cambio di regime orchestrato dai turchi non hanno pacificato il Paese. Al-Jolani, ex leader di Al Qaeda, oggi detiene un potere informale ma crescente, forse persino tollerato da Washington e Tel Aviv. Ma la Siria resta frammentata e tribale.
Gli scontri recenti tra beduini sunniti e drusi sciiti — scoppiati dopo il rapimento di un ambulante — hanno visto l’occupazione militare della roccaforte drusa da parte delle forze governative. Gli attacchi aerei israeliani in quell’area non sono soltanto operazioni di contenimento: sono anche un segnale chiaro di protezione verso la comunità drusa, molto presente in Israele e nell’IDF. La sicurezza dei Drusi siriani è anche una questione interna per lo Stato ebraico.
Nel frattempo, in Europa cresce un’ondata inquietante di ostilità verso Israele. Boicottaggi accademici, accuse di genocidio, tentativi di sabotare la cooperazione scientifica e militare tra Unione Europea e Israele. È un arretramento culturale inaccettabile, soprattutto quando coinvolge le Università, che dovrebbero essere spazi di scambio, confronto e conoscenza. Ricordo quando alla Bicocca fu cancellato un corso su Dostoevskij, per via dell’invasione russa dell’Ucraina: era un gesto assurdo.
Cosa c’entra uno scrittore dell’Ottocento con le ambizioni imperialiste di Putin? Allo stesso modo, boicottare la cooperazione accademica con Israele è un errore che alimenta antichi pregiudizi antisemiti. Personalmente non amo il governo israeliano, che considero pessimo, così come non amo il presidente americano. Ma distinguo tra democrazie e dittature.
Si può e si deve criticare la politica di uno Stato democratico senza distruggere i ponti della cooperazione. Tanto più quando a promuovere il boicottaggio di Israele sono gli stessi che chiedono di riaprire i rapporti con la Russia o con l’Iran. E questo, francamente, mi fa pensare molto male.
Alberto Pagani
Esperto di relazioni internazionali e difesa, già deputato Pd e docente universitario
«Anche oggi, quando tutto fa pensare al peggio, si deve ostinatamente cercare la pace» «Anche oggi, quando tutto fa pensare al peggio, si deve ostinatamente cercare la pace» «Anche oggi, quando tutto fa pensare al peggio, si deve ostinatamente cercare la pace»