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Amnesty, la bilancia rotta dei diritti umani

Paolo Montesi

Tempo di Lettura: 3 min
Amnesty, la bilancia rotta dei diritti umani

Sessant’anni di presenza in Israele dissolti in pochi mesi. Amnesty International ha chiuso la sua filiale israeliana, e non per un improvviso calo di interesse o di fondi: è stata una vera e propria epurazione. La colpa? Aver osato ricordare che esistono anche vittime israeliane. Un’eresia che a Londra e Washington non si perdona.

Gli ex dirigenti israeliani, Molly Malkar e Yariv Mohar, raccontano come l’organizzazione mondiale li abbia messi alla porta per avere pubblicato un rapporto sulla disumanizzazione degli israeliani nei campus occidentali. Amnesty centrale ha reagito con stizza: parlare delle vittime ebree “rafforza la narrativa israeliana”. Un’ammissione involontaria ma cristallina: per Amnesty i diritti non sono universali, sono negoziabili a seconda della convenienza politica.

Il paradosso si completa con il colossale “rapporto sul genocidio” contro Israele, 200 pagine già titolate prima ancora di essere scritte. La logica era semplice: l’atto d’accusa prima, le prove dopo. Se Israele bombarda Hamas, è genocidio; se Hamas massacra civili, è “contesto”. Perché la leggenda mistificata va protetta a ogni costo. La sezione israeliana, pur critica verso il governo, si è ribellata a questa impostazione ideologica. Non per difendere Netanyahu o l’esercito, ma per difendere un principio banale: che la parola “genocidio” non può essere usata come uno slogan da corteo.

Mohar, che pure non risparmia critiche al suo Paese, lo dice chiaro: “Non si trattava più di diritti umani, ma di una battaglia di narrazioni”. Una battaglia in cui Amnesty ha scelto di trasformarsi da cane da guardia a cane da compagnia delle piazze anti-israeliane. Non conta più verificare chi compie atrocità: conta solo se denunciarle danneggia o meno la causa palestinese.

Così, quando si trattava di chiedere attenzione per gli ostaggi israeliani a Gaza, l’organizzazione globale ha fatto orecchie da mercante. Alcuni di loro avevano doppia cittadinanza, ma le sezioni nei rispettivi Paesi non hanno voluto “adottarli”: troppo rischioso per l’immagine. In compenso, nessun problema a invitare relatori che glorificano le bandiere di Hamas o a proteggere attivisti che invocano “la liberazione con ogni mezzo necessario”.

Non stupisce allora che la sezione israeliana abbia finito per chiudere i battenti. Non era più Amnesty a lasciare Israele: era Israele a essere espulso da Amnesty. Perché l’organizzazione che predica imparzialità universale non tollera complessità, né sfumature: solo slogan, hashtag e campagne calibrate sul target giovanile, quello che clicca e condivide, senza mai chiedersi cosa c’è dietro.

Il risultato è grottesco. Un movimento che nel 2018 denunciava con rigore le repressioni di Hamas a Gaza, oggi si rifiuta persino di ammettere che il gruppo terroristico sequestri gli aiuti alimentari destinati alla popolazione. Perché? Perché “sembra narrativa israeliana”. È la caricatura di un’organizzazione per i diritti: se Hamas affama i gazawi, meglio tacere; se Israele combatte Hamas, allora è genocidio.

Dietro la patina moralista resta un sospetto amaro: Amnesty non ha più una bilancia dei diritti umani, ma un registratore di slogan. Una sorta di algoritmo ideologico che produce comunicati a gettone, dove la condanna degli israeliani arriva in tempo reale e quella dei terroristi, se arriva, è diluita, tardiva, e comunque subordinata all’andamento della protesta internazionale.

Alla fine, la frattura con la filiale israeliana non è che l’inevitabile epilogo di una storia in cui il marchio “diritti umani” è stato sacrificato sull’altare della propaganda. Con una sola costante: quando gli israeliani muoiono, meglio cambiare argomento.


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