Cancellare una presentazione di un libro non è mai un atto neutro. Quando il libro si intitola Alla vita!, quando l’autore è un rabbino, e quando a bloccare l’incontro non sono proteste di piazza ma una “raccomandazione” della Questura accolta senza resistenza dall’editore, la vicenda assume il valore di un segnale inquietante. È quanto è accaduto a Haim Fabrizio Cipriani, rabbino, musicista e intellettuale, la cui nuova opera per San Paolo non ha visto la luce pubblica nella capitale.
Cipriani ha raccontato la sequenza di passaggi che hanno portato alla cancellazione: la Questura ha “sconsigliato” l’evento, l’editore ha immediatamente recepito e accettato, la libreria si è piegata: l’autore è stato messo a tacere. Nessun confronto, nessuna possibilità di dialogo: solo un vuoto. «Hanno cancellato me», spiega con amarezza. Non il libro, non il tema — ma la voce stessa di un rabbino che voleva dire “alla vita”. Con un libro che illustra le feste ebraiche, non con un manuale militare. Ma fa lo stesso. Ebreo, israeliano, filoisraeliano: come propugnava quel professore che la sua università, quella di Palermo, non ha voluto sanzionare, “sono tutti uguali e mentono tutti”.
Il paradosso è stridente: la parola che custodisce la speranza, l’Chaim! nella tradizione ebraica, è stata ammutolita da un contesto che teme il conflitto più di quanto sappia difendere la libertà. Cipriani sottolinea che non si è trattato di un episodio isolato, ma di una dinamica che riguarda molte iniziative culturali legate all’ebraismo, a Israele, al dialogo interreligioso. Una forma di censura preventiva che si maschera da misura di sicurezza.
Il tema vero, allora, non è solo l’episodio romano. È l’idea che parlare da ebreo, parlare di vita e di dialogo, esponga automaticamente a un rischio, a una stigmatizzazione. Qui non si tratta più di antisemitismo esplicito, di scritte sui muri o aggressioni fisiche: è una prassi burocratica, apparentemente neutrale, che però finisce col produrre lo stesso effetto. Silenziare. Rimuovere. Cancellare.
Il racconto di Cipriani diventa un atto di denuncia. Descrive non soltanto la delusione personale, ma il disagio di un Paese in cui presentare un libro può diventare un problema di ordine pubblico. In cui le istituzioni culturali, invece di ergersi a presidio della libertà, preferiscono piegarsi al consiglio prudente della polizia. In cui editori cattolici di grande tradizione scelgono la via dell’auto-censura per non avere guai.
Il rabbino non chiede protezione speciale. Chiede di poter parlare. Di poter lanciare un messaggio di vita, di speranza, di incontro. E invece si trova additato come potenziale bersaglio, come fattore di rischio. Qui si intravede una mutazione: l’antisemitismo non ha più bisogno del gesto violento per prosperare. Gli basta l’alibi della sicurezza, la prudenza dei funzionari, la vigliaccheria degli editori.
In fondo, è più comodo così: non c’è lo scandalo della piazza urlante, non c’è il clamore delle aggressioni. C’è soltanto una cancellazione silenziosa, amministrativa, invisibile. Ed è forse la forma più pericolosa, perché si infiltra nel corpo democratico senza rumore, normalizzandosi.
Cipriani lo dice con lucidità: «Questa non è più solo paura, è un’abdicazione della responsabilità». Le sue parole segnano un punto critico per la coscienza pubblica. Se un rabbino non può presentare un libro sulla vita senza che qualcuno decida di impedirglielo, allora la società italiana deve interrogarsi: non siamo già dentro la prassi di un nuovo antisemitismo?
Perché è di questo che si tratta. Non un semplice ritorno ai fantasmi del Novecento, ma un fenomeno diverso, meno appariscente, più subdolo. Una miscela di indifferenza e calcolo, di pavidità e conformismo. Che porta allo stesso risultato: escludere la voce ebraica, ridurla al silenzio, trattarla come problema e non come risorsa.
Il finale di questa storia è amaro, e non riguarda solo Cipriani. Riguarda tutti noi. Una società che accetta che la libertà di espressione venga messa a tacere, che un libro venga rimosso non per ciò che dice ma per chi lo scrive, ha smarrito un pezzo della propria identità democratica. E non lo sa, o non vuole saperlo.
Alla vita negata: il caso Cipriani e la prassi del nuovo antisemitismo
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Alla vita negata: il caso Cipriani e la prassi del nuovo antisemitismo