Aharon Appelfeld è uno dei grandi scrittori israeliani della Shoah, ma anche uno dei più anomali. Nato in Bucovina, sopravvissuto bambino alla deportazione e alla guerra, arriva in Israele senza famiglia, senza lingua, senza passato ricomponibile. Scriverà in ebraico di ciò che precede Israele, di ciò che resta prima e dopo la Shoah, evitando quasi sempre la rappresentazione diretta dei campi.
Tra le sue opere più importanti ci sono ‘Badenheim 1939’, allegoria spietata dell’illusione borghese e dell’autoinganno ebraico alla vigilia della distruzione; ‘Storia di una vita’, autobiografia frammentata e asciutta, tra le più potenti mai scritte sulla sopravvivenza; ‘L’amore, d’improvviso’, e ‘Tzili’, romanzi in cui la Shoah appare per margini, silenzi, spostamenti minimi. Appelfeld non racconta l’orrore ma piuttosto ciò che lo circonda.
La sua cifra è l’ellissi. Nei suoi libri la violenza è fuori campo, la Storia entra come una nebbia che avanza lentamente. I protagonisti sono spesso figure marginali, fragili, spiritualmente disarmate, colte nel momento in cui il mondo che conoscono smette di funzionare. Non c’è retorica, non c’è spiegazione, non c’è redenzione.
A differenza di altri scrittori israeliani, Appelfeld non fa della letteratura uno strumento di intervento politico. Israele è presente, ma come luogo di approdo silenzioso, non come tema ideologico. Il suo lavoro scava nel trauma europeo dell’ebraismo e lo trasporta nella lingua ebraica senza trasformarlo in mito fondativo. In questo senso, è uno scrittore profondamente israeliano proprio perché non parla di Israele.
All’estero Appelfeld è stato letto come testimone della Shoah; in Israele come custode di una memoria che non si lascia integrare né pacificare. La sua grandezza sta nella sottrazione: ha mostrato che, davanti alla distruzione totale, la letteratura non deve urlare ma restare e scrivere piano. Senza spiegare troppo.
I rapporti tra Israele e il Kurdistan iracheno

