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IAGS, il voto di pochi che diventa «verità di tutti»

Paolo Montesi

Tempo di Lettura: 4 min

La IAGS (International Association of Genocide Scholars), associazione internazionale degli studiosi di genocidio, ha approvato una risoluzione che accusa Israele di genocidio a Gaza. Notizia raccontata come un plebiscito, anche se la matematica, guardata da vicino, è meno scenografica: il sì ha vinto con una larga maggioranza tra i votanti, non tra tutti i membri. E i votanti, in realtà, sono stati una minoranza dell’associazione.

I numeri, spogliati dalla retorica, dicono questo: ha partecipato poco meno di un terzo degli iscritti e, dentro quel perimetro, il sì ha ottenuto circa l’86 per cento. Tradotto: in un’associazione che conta all’incirca cinquecento membri, la risoluzione è passata con poco più di un centinaio di preferenze. È legittimo sul piano procedurale, ma non è il giudizio solenne dell’intera comunità disciplinare: è la posizione, forte, dei partecipanti al voto.

Qui si innesta il gioco delle percezioni. Da un lato, chi sostiene la risoluzione parla di «consenso travolgente», contando solo chi ha cliccato su «vota». Dall’altro, chi la contesta ribatte con lo slogan opposto: «il 72 per cento ha rifiutato di sostenere l’atto», includendo anche chi non ha partecipato. Ma non votare in una consultazione via email non equivale a un’astensione formale: è semplicemente un dato di partecipazione. In mezzo, cioè nella realtà, c’è una decisione valida per statuto e, allo stesso tempo, un corpo sociale che non si è espresso in massa.

Le regole interne dell’associazione sono chiare: quorum sopra una certa soglia e maggioranza qualificata tra i votanti. Entrambi i requisiti sono stati rispettati. È corretto affermare che la risoluzione esiste, impegna l’associazione e riflette la volontà di chi ha partecipato. È altrettanto corretto ricordare che non è un referendum costituente sull’oggetto più esplosivo del lessico giuridico internazionale. La parola «genocidio», che porta con sé un peso storico, morale e legale enorme, non può essere compressa in una percentuale brandita come clava comunicativa.

Conviene distinguere i piani. Quello procedurale: c’è stato un voto regolare, la delibera è passata, punto. Quello rappresentativo: quando tre membri su dieci votano e otto su dieci tra loro dicono sì, siamo davanti a un indirizzo forte ma non all’unanimità dell’intera comunità. Quello narrativo: l’aggettivo che scegli – «travolgente», «minoritario», «contestato» – sposta il significato politico più dei numeri nudi e crudi.

C’è poi il merito. La risoluzione afferma che le politiche e le azioni di Israele a Gaza soddisfano la definizione legale di genocidio. È un giudizio, non un atto notarile. Come ogni giudizio, chiede trasparenza metodologica e responsabilità nel maneggio delle prove. Se il campo degli studi sul genocidio vuole restare credibile, la chiarezza su affluenza, criteri e limiti dell’inferenza è parte della posta in gioco tanto quanto il contenuto della delibera.

Infine c’è la politica, che usa i verbi al presente e le cifre come munizioni. Un «86 per cento dei votanti» diventa «la comunità degli studiosi», un’affluenza modesta scompare dietro l’aggettivo «soverchiante», un «non pervenuto» si trasforma in «astensione». In questo scarto tra ciò che è successo e il modo in cui lo si racconta si misura la qualità del dibattito pubblico. Non è un tecnicismo: qui passa la linea che separa l’informazione dalla propaganda.

Il punto, per chi osserva senza tifare, è semplice. La risoluzione c’è, ed è stata approvata in modo valido. Non è, però, la voce intera della disciplina. È il segnale di una parte motivata e organizzata all’interno di una comunità più larga e silenziosa. Tener fermi entrambi i fatti non indebolisce nessuno: restituisce proporzione a una parola che non dovrebbe mai essere inflazionata e rimette i numeri, finalmente, al loro posto. Dove contano davvero: nel controllo del racconto.


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