Lo sciopero generale del 28 novembre nasce da motivazioni chiare: salari, legge di bilancio, spesa militare. Eppure, ormai è sistematico, nel comunicato dei sindacati di base compare anche la condanna della politica estera e l’accusa di “complicità nel genocidio del popolo palestinese”.
È una scelta che solleva più di una domanda: perché infilare ogni volta la questione Medio Oriente dentro le rivendicazioni sociali italiane? Evocare la Palestina significa collocarsi automaticamente “dalla parte giusta”, rafforzando l’identità del movimento e creando un ponte tra lotta locale e lotta globale. Chi sciopera non rivendica soltanto stipendi, ma mostra di essere parte di una comunità internazionale di resistenza.
Il vantaggio immediato è evidente: la questione palestinese polarizza e attira attenzione, molto più di un dibattito tecnico sulla legge di bilancio. È un collante interno che cementa il gruppo, un modo per dare un senso di lotta comune, e al tempo stesso una legittimazione morale: chi protesta appare non solo come difensore di interessi economici, ma come portatore di valori universali.
Ma forzare la mano ha un prezzo. Inserire la Palestina in ogni mobilitazione rischia di trasformare la solidarietà in slogan automatico, svuotato di contenuto, e soprattutto di aprire la porta a un terreno scivoloso: l’antisemitismo.
La condanna di Israele troppo spesso degenera nella delegittimazione del popolo ebraico, parlare solo di Palestina e mai delle donne israeliane stuprate il 7 ottobre o delle comunità ebraiche sotto attacco, alimenta una narrazione selettiva che discrimina. In questo modo la protesta rischia di apparire come un palco ideologico più che come una mobilitazione sociale.
Negli ultimi anni molte manifestazioni italiane hanno incluso cause internazionali, dalla Palestina all’Ucraina fino al clima. È il segno di un attivismo ibrido, dove il confine tra rivendicazione sociale e geopolitica si assottiglia. Ma se la solidarietà diventa un obbligo retorico, non rischia di oscurare le ragioni immediate di chi sciopera?
Ne vale davvero la pena?
Parlare di Medio Oriente dentro ogni sciopero è come usare il burro in cucina: dà sapore a qualunque piatto, rende più appetitosa la protesta e ne amplifica il gusto. Ma il rischio è sempre lì, dietro l’angolo: il colesterolo. Troppo burro può trasformare un condimento in veleno.
28 novembre: un altro sciopero al burro
28 novembre: un altro sciopero al burro

